Autorizzati al trattamento dei dati personali

Proseguiamo con questo articolo la disamina delle figure chiave previste dalla nuova normativa privacy (GDPR e D.lgs. 101/2018) analizzando i cosiddetti “autorizzati al trattamento”.

Spesso mi viene chiesto come inquadrare correttamente, nell’ambito dell’organizzazione aziendale o dello studio professionale, dipendenti e collaboratori interni. La risposta a mio avviso più corretta è quella di procedere alle nomine di questi soggetti in qualità di autorizzati al trattamento. Procediamo però con ordine.

Il GDPR indica che non sono considerati soggetti terzi all’organizzazione (oltre a titolare e responsabili ed eventualmente il DPO) anche quelle persone che trattano dati personali sotto l’autorità diretta del titolare o del responsabile. Così come il nostro codice privacy, anche il GDPR non contrasta con la nomina degli incaricati al trattamento, chiamati “autorizzati o delegati”. Si può dare una definizione molto pratica: gli autorizzati al trattamento sono tutti quei soggetti interni alla organizzazione che nello svolgimento dei loro compiti e delle loro mansioni entrano in contatto con dati personali.

Subito dopo aver dato questa breve definizione sorgono i primi dubbi applicativi: ciò è tipico di quando si passa da una visione della privacy come mero adempimento ad una
visione della normativa aziendalistica e prettamente organizzativa; ci si accorge che non c’è nulla di semplice (niente da invidiare ad esempio alle normative antiriciclaggio, ex 231 ecc.), ragion per cui le risposte, come per le altre figure e casistiche, sono e devono essere articolate. Per fare delle scelte oculate provo a dare alcuni spunti con esempi molto pratici al fine di avere uno schema applicativo quanto più possibile definito. Distinguerei intanto tra dipendenti e collaboratori che non trattano dati personali (di persone fisiche) da quelli che invece trattano questa tipologia di dati. Nel primo caso è evidente come non servirà nessuna nomina o contratto particolare; tuttavia, pur apparendo di semplice soluzione ed inquadramento, la realtà merita un’analisi approfondita. Se, per esempio, un dipendente lavora in officina ad un tornio ed utilizza schede di lavoro che riportano nomi, cognomi, numeri di telefono ecc. è evidente come nella sua mansione non dovrebbe avere questa tipologia di dati: c’è un problema non banale di organizzazione, in quanto la scheda della lavorazione non dovrebbe indicare quei dati che devono quindi essere eliminati a monte.

Nell’esempio citato tecniche e buone prassi come minimizzare i dati, la pseudonimizzazione ecc. permetterebbero di evitare questo problema.

In pratica la scheda lavoro (o più in generale i dati trattati) devono essere nascosti, codificati o cancellati dalla vista del lavoratore non autorizzato. Per ovviare a questo problema ho visto organizzazioni autorizzare “a tappeto” tutti i lavoratori; tuttavia questa soluzione, a mio avviso, non è corretta e può portare a sanzioni o quantomeno ad un processo di trattamento non lineare ed efficiente.

Non basterà infatti autorizzare questi lavoratori al trattamento dei dati, poiché vige un principio generale della normativa che chiede di “minimizzare” i dati trattati e creare divisioni organizzative di responsabilità; è imperativo quindi autorizzare il trattamento dei dati solo quei lavoratori che necessitano veramente di tali dati ai fini della mansione svolta.

Venendo ai nostri studi professionali, la quasi totalità dei nostri collaboratori e dipendenti è del secondo caso, cioè con mansioni che richiedono il trattamento di dati personali di persone fisiche (carte identità, numeri di telefono personali, indirizzi, condizioni economiche e sociali, dichiarazioni reddituali ecc.); in questo caso è opportuno nominarli quali autorizzati al trattamento dei dati personali. In verità, la non è immediata ed automatica neppure in questo caso.

Giungo a questo tipo di conclusione seguendo un ragionamento logico-giuridico che parte dalla traduzione italiana del GDPR 2016/679, (in vigore del 25 maggio 2018); questa figura infatti non è citata espressamente dalla norma.

E’ invece citata dall’art.4, n.10 del Regolamento nel seguente disposto: “persone autorizzate al trattamento dei dati personali sotto l’autorità diretta del titolare o del responsabile”. Anche il Garante italiano, nella guida all’applicazione del Regolamento, considera questo tipo di figura; si trova scritto: Pur non prevedendo espressamente la figura dell’incaricato del trattamento (ex art. 30 del D.lgs. n. 196/2003), il regolamento UE non ne esclude la presenza in quanto fa riferimento a “persone autorizzate al trattamento dei dati personali sotto l’autorità diretta del titolare o del responsabile” (si veda, in particolare, art. 4, n. 10, del regolamento).

Quindi nulla vieta che si possa responsabilizzare questi soggetti attraverso un incarico ben definito.

Consiglio questa modalità operativa anche in ottica di “best practice” volta dimostrare ulteriormente l’adeguamento al GDPR.

Non solo: quale altro mezzo abbiamo per dimostrare ex post che i dipendenti e collaboratori hanno ricevuto istruzioni in tema privacy se non facendo firmare un qualche tipo di documento che lo attesti?

In tema di istruzioni quindi è fondamentale fornire agli autorizzati le istruzioni operative (art. 29 GDPR), compreso gli obblighi inerenti le misure di sicurezza, e che sia fornita loro la necessaria formazione. In caso contrario, infatti, anche in presenza di formali designazioni, queste sarebbero del tutto prive di valore. La “nomina” degli autorizzati può avvenire anche con unico atto comprensivo di tutti lavoratori; ritengo però che la conoscenza dell’incarico e delle istruzioni fornite sia fondamentale per l’adeguamento alla normativa, poiché l’autorizzato dovrà ovviamente attenersi strettamente alle istruzioni ricevute che quindi vanno portate a piena conoscenza dei designati; ecco dunque di nuovo il tema della formazione: non si potrà mai essere aderenti alla normativa senza aver organizzato una formazione adeguata.

Bisognerà porre anche attenzione al fatto che la normativa non prevede requisiti quantitativi per essere considerati autorizzati, per cui anche la semplice presa visione di un dato personale (es. chi vede una bolla di consegna) è un trattamento. Non è nemmeno rilevante che il lavoratore sia inserito stabilmente nell’organico dello studio o dell’azienda, ad esempio agli stagisti, le alternanze scuola lavoro, … Anche questi soggetti, se trattano dati personali di persone fisiche, dovrebbero essere inquadrati come autorizzati al trattamento.

È inoltre fondamentale la formazione dei collaboratori e dipendenti poiché non è possibile autorizzare al trattamento soggetti che non hanno idea della normativa o di come siano strutturati i processi interni di acquisizione e trattamento dei dati; questo è tanto più vero quando i collaboratori siano nuovi dell’organico o precari.

Da qui il tema di chi o come debba essere fatta la formazione in tema privacy: allo stato attuale della normativa non è stato definito un organo preposto alla formazione né tantomeno delle certificazioni. Posso però dire con certezza che la legge prevede tra gli incarichi affidati al DPO (Data Protection Officer, figura descritta negli articoli precedenti sulla nostra Rivista) anche quello della formazione sia al Titolare del trattamento che ai ollaboratori e dipendenti: (art 39 punto 1.b) “sorvegliare l’osservanza del presente regolamento, di altre disposizioni dell’Unione o degli Stati membri relative alla protezione dei dati nonché delle politiche del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento in materia di protezione dei dati personali, compresi l’attribuzione delle responsabilità, la sensibilizzazione e la formazione del personale che partecipa ai trattamenti e alle connesse attività di controllo”.

Quindi consiglio che la formazione venga fatta dal DPO (se nominato) o almeno (in attesa di conferme) da un soggetto che ricopra questa carica in altre aziende o enti.

Dott. Stefano Bacchiocchi